
a cura di Lions Club Arezzo Chimera


5-Il Maccagnolo
Colle di Maccagnolo (m296 slm)
“C’è bellezza ovunque, ma non tutti riescono a vederla”.
Una delle frasi più celebri di Confucio sembra pensata per il Maccagnolo, il piccolo colle della periferia sud occidentale di Arezzo lambito dal torrente Vingone.
Tra i colli aretini, il Maccagnolo è forse il meno noto ai visitatori, ma anch’esso possiede una storia sorprendentemente lunga: gli archeologi vi hanno trovato piccole testimonianze risalenti addirittura al Neolitico (10.000-3.500 a.C.). In seguito, durante l’epoca etrusca e romana, il Maccagnolo si trovava immediatamente fuori dall’abitato urbano: è plausibile che fosse utilizzato come terreno agricolo o boschivo al servizio della città, anche se non sono documentati grandi edifici antichi sul colle.
Il nome “Maccagnolo” potrebbe derivare da termini latini o germanici legati a proprietà fondiarie. Le sue vicende storiche riemergono con più chiarezza nel medioevo e sono collegate all’arrivo dei Francescani: quando, agli inizi del Duecento, i frati seguaci di San Francesco giunsero ad Arezzo, cercarono rifugio in zone extraurbane prima di stabilirsi in città ed al Maccagnolo ci fu il loro primo insediamento di Arezzo. Qui infatti sarebbero arrivati i seguaci del futuro patrono d’Italia dopo il 1217 e ci sarebbero rimasti i primi anni, prima del trasferimento a Poggio del Sole nel 1232. È probabile che sul colle esistesse un piccolo oratorio o ricovero che ospitò i fraticelli in quegli anni pionieristici. Successivamente il Maccagnolo tornò ad essere una tranquilla collina periferica. Nei secoli seguenti rimase scarsamente edificato, caratterizzato da coltivazioni e qualche casa rurale. Vi basterà passeggiare nel breve tratto dell’antica via Vespucci per dimenticare i palazzoni del secondo Novecento che avvinghiano la zona e sentirvi in un borgo immerso nella campagna toscana, con una splendida leopoldina a farvi compagnia. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso la zona era connotata da poche abitazioni nella parte sommitale del colle, per il resto c’erano campi coltivati e terreni incolti. Con il boom industriale aretino sorsero nei due decenni successivi grandi quartieri popolari, soprattutto a sud ovest della città vecchia, che accoglievano le tante famiglie che si spostavano in città per lavorare nelle fabbriche dell’abbigliamento e orafe.
La collina venne così avviluppata dalle lottizzazioni della nuova Arezzo, che si espandeva verso la Val di Chiana senza freni e troppo spesso senza badare alla qualità edilizia e all’estetica.
Negli anni ’70 venne decisa la costruzione di una chiesa parrocchiale dedicata a San Donato (patrono cittadino) che, inaugurata nel 1980, oggi spicca sul colle con le sue linee contemporanee: da subito criticaae e derisa per la bassa qualità dei materiali usati e per il suo aspetto, più simile ad un capannone industriale. L’interno a pianta quadrata propone tuttavia più di un motivo di riscatto, grazie a un patrimonio d’arte sacra tra i più interessanti dell’ultimo mezzo secolo nel territorio. Enzo Scatragli, uno dei maggiori scultori e medaglisti toscani viventi, realizzò il “Fonte battesimale” nel 1992 con l’aiuto di Mario Gallorini e la straordinaria “Moltiplicazione dei pani” del 1999 in pietra serena, collocata dietro all’altare maggiore per celebrare i primi 25 anni della parrocchia.
Giorgio Ciofini ha scritto:
Maccagnolo è 'n luogo fuori del tempo, che ha qualcosa di mistico. Non per niente qui passò la notte anche San Francesco nel suo peregrinare da Assisi alla Verna, nel convento dei suoi fraticelli, che era poco più d'una capanna. Per secoli è stato l'ultima propaggine d'Arezzo verso la Val di Chiana, il primo asilo che il viandante incontrava arrivando in città da sud, tramite la Cassia Vetus. Poco più in là c'era il Lazzaretto, che giace dimenticato lungo via Romana.
Chissà: se Manzoni invece che 'n Arno fosse venuto a risciacquare i panni nel Vingone, Renzo e Lucia sarebbero nati qui e la strada di Maccagnolo, 'n do' ‘n passa mai nessuno, sarebbe stata l'ideale per le passeggiate serali di don Abbondio e per i bravi. In cima al colle c'è anche il castello dell'Innominato (una volta era del Caldelli).
Maccagnolo è la più bassa tra le colline d'Arezzo e anche la meno ricca della storia che si fa ne l'archivi. Del resto è poco più d'un dosso, che se lo prendi in machina un po' veloce, il cuore sale in gola. Ma questo non è possibile, perché ci si va solo a piedi. Il colle del Pionta, a un tiro di schioppo, lo guarda dall'alto com'un babbo, che si prende cura d'un citto troppo vivace. Nel periodo dell'inurbamento dalla campagna e del boom edilizio, nei primi anni sessanta, Quando esplodeva il quartiere di Saione, Maccagnolo è stato l'ultimo baluardo della civiltà contadina. Quelle casine dai camini alti quanto loro, tutte apiccicate in cima al dosso com'a volersi sostenere l'una con l'altra, resistettero all'assalto delle ruspe.
Oggi Maccagnolo è “l'isola che non c'è” di De Gregori. Resistette al boom edilizio; ora ha ceduto a cinesi e magrebini, russi e tibetani, romeni e brasiliane, indiani e bantu, un luogo dove stenti a riconoscere quelle antiche radici di aretinità. Se t'afacci dalla piccionaia del castello dell'Innominato vedi ai tuoi piedi la nuova torre di Babele, la moschea del Luzi e San Donato Dancing a ballare co'le matriosche russe, al confine con la ‘foresta vergine rigogliosa’ lungo il Vingone. Certe sere ch'ha piovuto e l'aria è chiara in lontananza, di là dal Tortaia, s'avvistano anche Sodoma e Gomorra. Ma basta scendere dalla piccionaia del Mancini per aterrare a casa mia, quella di quando ero citto, nell'isola che non c'è. Se ci passi d'inverno, da Maccagnolo, i suoi camini alti come le casine fumano antiche storie, che il vento s'è portato chissandò e un buon profumo di legna arsa t'entra dal naso e mira al cuore.
Il Colle del Maccagnolo offre così un esempio di continuità tra passato e presente: dai remoti tempi preistorici ai primi passi del francescanesimo aretino, fino alla vita quotidiana odierna di un quartiere cittadino. Passeggiando per le sue strade alberate, forse senza accorgersene, si cammina su strati di storia silenziosa, dove ogni zolla potrebbe nascondere un frammento di selce lavorata dalla mano di un uomo neolitico o una moneta perduta da un pellegrino medievale.