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a cura di Lions Club Arezzo Chimera
Duomo Vecchio e Pieve.jpg
una particolare somiglianza tra la ricostruzione pittorica dell'abside del 'Duomo Vecchio' sulla collina del Pionta (che sarà distrutto per volere di Cosimo I) e l'abside della Pieve di S. Maria)

Una città, un Granduca ed un cannone...

Esempi delle abilità aretine e del giogo fiorentino su Arezzo nel corso del Rinascimento
a cura di Roberto Cecchi, da uno scritto di Enzo Droandi

Nessuno cita mai come prova di capacità produttiva e di perizia aretina un cannone, una bocca di fuoco potente e robusta che compare nella no­stra storia nel 1530, durante la famosa terribile in­surrezione iniziata nel 1529 contro Firenze repubbli­cana, attuata per la libertà cittadina, e conclusasi il 10 ottobre 1530 quando, per volontà di Carlo V impera­tore e di Clemente VII pontefice, Arezzo fu costretta a tornare sotto Firenze, stavolta medicea.

Abilità Aretine

Comandava gli insorti aretini il Conte Francesco di Bivignano, detto Conte Rosso (appellativo più recentemente dato anche ad Amedeo VII di Savoia), uomo d'arme dello scorrazzante condottiero imperiale principe d'Orange; il quale Conte era sotto la guida dell'apposita magi­stratura civica aretina dei ‘Sei della guerra’.

I repubblicani fiorentini avevano ancora in mano la Fortezza, quale era dopo i lavori iniziati del 1505; e da qui molestavano la Città con l'artiglieria leg­gera. Si racconta che il 12 novembre 1530, che fu un venerdì, dopo mezzogiorno, aprirono il fuoco sull'abitato, producendo danni notevoli e coinvolgendo «  …..l’omeni, donne, fanciulli, asini et cavalli, et carri et chiese campanili et campane et ruppero perfino il nostro uriolo….  ».

A parte le vicende civili e belliche che videro coinvolti l'Abate di Farfa, Don Diego de Mendoza capo delle truppe spagnole, che morì all'assalto di Monter­chi e che fu sepolto nella chiesa di San Bernardo, ed a parte il Conte Rosso che morirà per ordine del papa Clemente perché appoggiò troppo i suoi compatrioti aretini, occorre ricordare che, ancora in aprile del 1530, la situazione era irrisolta. Arezzo aveva dimostrato la propria capacità civile e militare, ma, ancora, i repubblicani fiorentini erano dentro la fortezza.

(E non si dimentichi che Firenze, tanto quella repubblicana quanto quella medicea, sapeva bene che le fortezze son da fare non tanto per difendersi dai ne­mici esterni, quanto per tener soggiogate le città so­spette ed, in specie, quelle di frontiera).

Contesto storico

Nella più che trimillenaria storia are­tina ci sono fatti che attestano, episodica­mente ma in modo prorompente, una accentuata potenzialità di tipo e misura indu­striali che caratterizzarono certi tempi, seppur sempre con in sottofondo una agricoltura attiva ed esportatrice (grano, guado, vini) ed una pastorizia altrettanto esportatrice (pelli e lane, formaggi),.

  • Esempio classico (da Tito Livio) è il contributo più o meno spontaneo che la Città offri all'armata romana per l'ultimo attacco a Cartagine: mi­gliaia di scudi, elmi, lance e giavellotti, attrezzeria metallica per quaranta navi da guerra, centoventimila moggi di grano e gran copia di viveri, e cioè i pro­dotti di una struttura industriale ed, allo stesso tempo, coltivatrice.

  • Ancor prima da ricordare le straordinarie opere bronzee etrusche delle quali possediamo solo frammentari residui (Chimera, Minerva, Aratore, ecc.)

  • poi la produzione in vasta serie delle fabbriche di vasellame corallino che nel I secolo si diffuse in tutto il mondo romano ed oltre

  • la potenza costruttiva delle imprese impegnate nel grande disegno politico ed urbanistico del Signore e Vescovo Guido Tarlati (che creò enormi mura compi la massiccia elegante torre campanaria di Pieve)

  • la specializzazione delle medioevali fabbriche d'armi corazze e cervelliere che operavano fra la chiesa di San Piero ed il palazzo della cervelleria (che producevano oggetti perfetti, di costo unitario iperbolico, assunti talvolta, per la loro preziosità, come pegni di banchieri ed usurai per prestiti di denaro)

  • la capacità delle forze e dei mezzi industriali impegnati nella plurisecolare lotta contro le paludi di Chiana

  • per il nostro secolo, il  respiro mondiale delle attività orafe, nate sulla scia di una lunga tradizione.

Gli storici ricordano questi esempi; ma nessuno cita mai come prova di capacità produttiva e di perizia un cannone...​

Ecco l'iniziativa

Tentennando il Conte Rosso capo militare, il 9 aprile gli aretini decisero di dare ad Alberto Barbolani di Montauto il comando per la presa della Fortezza e lo crearono "capitano generale" (grado che enuncia tutta la spagnolità di quel momento). Questi strinse l'assedio, fece mine terribili (forse seguendo gli insegnamenti che Leonardo da Vinci aveva dato agli aretini nel 1502) e sparò con quella poca l'artiglieria che aveva. Ma non essendo le armi disponibili bastanti a ridurre la Fortezza alla resa, gli aretini determinarono che si fondesse, apposta, ipso facto , « ..un pezzo d’artigliaria vocato uno cannone, che tirava di palle libbre sessanta….» e cioè una bocca da fuoco per allora di grandezza smisurata ..

La realizzazione fu prontissima: il cannone  « immediate colato, et misso in sul carro…» fu piantato  « dirieto alle case del nostro vescovado….». «Trassono alchune botte a le mura di la cittadella …»  ed  il presidio fiorentino cominciò a predisporsi alla resa. Il 21 maggio, poi, « …un sabato mattina, circha a hora di disinare, avendo tratte dua botte, quelli de la fortezza ferono sonare el tamburo...»;  al momento della resa gli aretini ebbero anche tutte le artiglierie fiorentine e le munizioni relative, riuscendo così a disporre di un bel parco di bocche da fuoco, sul quale primeggiava il cannone fuso da loro stessi « ... di smisurata grandezza… ». Certo è che la fusione di quello straordinario strumento di guerra, alla quale non doverono essere estranei i notissimi  maestri campanai di Arezzo, e quelli di altre arti, attesta la presenza in città di strutture produttive e di una capacità materiale notevole, oltre che, è ovvio, di artieri esperti conoscitori delle tecniche di fusione e dei problemi costruttivi di un'arma del genere e dei particolari balistici relativi e, nel complesso, un am­biente industrialmente valente e ricettivo di un vasto patrimonio tecnologico compresso dalla politica fioren­tina.

I risvolti e...

Conclusa la vicenda insurrezionale, morto il Conte Rosso ucciso per volontà di Clemente VII che volle fargli scontare il disegno di una Arezzo nuovamente in­dipendente, tornata Arezzo sotto Firenze medicea con la sottoscrizione di capitolati apparentemente liberali, la storia del cannone ebbe altri svolgimenti. Quella bocca da fuoco capace di far tremare una fortezza faceva paura, specie se in mano agli aretini, gente sempre pronta ad insorgere.

Occorre al riguardo non dimenticare che i patti del 7 agosto 1531, almeno in apparenza, costituirono un successo politico per la nobiltà aretina del tempo, ri­spetto ai rapporti preesistenti che imponevano la pote­stà di Firenze repubblicana sulla base delle capitola­zioni leonine del lontano 1384. Con meno Ufficiali fiorentini, con gli otto Priori cittadini aventi potestà giudiziaria civile e penale di appello di primo grado e cosi via, la sistemazione politica del 1531 appare come il risultato di un momento di equilibrio fra potere oligarchico e prin­cipesco e di un certo atteggiamento nei confronti di una città soggetta, ma non silenziosa, e, per di più, partecipe attiva alla vittoria dei Medici. Sarà il tempo successivo, quello della sopravve­nuta monarchia assoluta medicea, a svuotare lentamente i contenuti delle intese del 1531, anche se le prime avvisaglie si fecero sentire presto, nel 1533, quando la più odiosa e la più drammatica delle contribuzioni finanziarie, che hanno tartassato per secoli Arezzo ed i comuni aretini, quella del sale, riscoppiò nella sua interezza determinando una lunga lite conclusasi con un concordato.

Del cannone d'Arezzo non si ebbe il coraggio di riparlare per un decennio. Non ne parlò il duca Alessandro quando nel 1536 giunse in città per Porta Santo Spirito; assisté, il duca, alla giostra di Buratto (antesignana della odierna Giostra del Saracino). Non ne parlò Cosimo primo nei primi due anni di principato, mentre preparava e poi consolidava il potere senza badare a violare storia, diritto e popoli soggetti. E Cosimo primo non ne parlò neppure durante la visita ad Arezzo del settembre 1539, quando cominciò la manovra avvolgente relativa al ripristino delle fortificazioni della fortezza. Poi, nel 1540, anno caratterizzato ad Arezzo da carestia, tasse in aumento, mura da finanziare e ri­fare, e dal solito panorama di malcostume, di ruberie di cancellieri, di doganieri e di notai, scoppiò la questione: Il duca Cosimo sarebbe ritornato: la magistratura cittadina pensò subito a festeggiamenti, onori e lunghe liste di usuali regali, alla giostra contro il Buratto, e crearono una deputazione di festieri con Paolo Montellucci  «…provveditore con piena libertà di spendere…». Il secondo duca di Firenze, Cosimo, primo di que­sto nome, con la duchessa Anna, arrivò e le cose si misero subito male: non era venuto in visita di cortesia, non intendeva assistere a feste, ad un palio o ad una giostra a Buratto; voleva avere il magnifico parco d'artiglieria dei sudditi aretini, quello della insur­rezione di dieci anni prima.

I Priori ed i Consiglieri capi­rono che non c'era da discutere di giostra, e decisero, nonostante tre coraggiosi voti contrari, di «… compiacere… » il sovrano. Fecero schierare tutte le bocche da fuoco attorno alla gran Fabbrica del Duomo ancora incompiuta. Cosimo, su ventotto bellissimi pezzi d'artiglieria, ne scelse ben diciassette, i più belli, i più grossi, ma fece finta di non considerare quell’enorme cannone che era una spina nella politica medicea. Prese i diciassette cannoncini scelti, li fece portare e piazzare nel nuovo cassero di Santalberto, senza domandare del cannone fatto in casa dagli aretini; quello che sparava palle da ses­santa libbre, quello fuso dagli insorti del 1530, quello che con poche palle aveva costretto i fiorentini della repubblica ad arrendersi, « tanto era il guasto che facevano le palle lanciate da quell’enorme cannone …».

Il duca sopportò, poi, feste, commedie, un te­deum, una partita di caccia, ma gli rimase sullo stomaco il cannone da sessanta libbre di quei dannati di aretini.

... le conseguenze

Cosimo e la duchessa ripartirono, apparentemente contenti. Ma poco dopo, da Firenze, il duca lanciò un diktat: il grande cannone d'Arezzo doveva essere spezzato e mandato a Firenze, con promessa di rifusione in due più modesti pezzi d'artiglieria da dare alla Città. Come dire:  il grande cannone che avete fatto con le vostre mani è troppo pericoloso. Intanto, come prova di buona volontà, Cosimo inviò in dono propiziatorio otto grossi schioppettoni: in realtà armi portatili.

La nobiltà aretina capitolò. Il grande cannone d'Arezzo fu spezzato, montato su quattordici muli e fatto partire. Nulla ritornò da Firenze.

 

Diciassette cannoncini nel cassero di Santalberto puntati sulla Città ed il grande incubo da sessanta libbre spezzato: altro che una battaglia perduta! Altro che battaglia vinta da Cosimo: fu l'ulteriore umiliazione delle possibilità industriali e delle capacità creative e difensive di una Città.

La parte centrale del XVI secolo fu, per Arezzo, caratterizzata dalla fredda ed impietosa distruzione di interi quartieri della Città, dell'abbattimento dei più nobili palazzi storici che parlavano di libertà, delle torri, dei campanili, delle chiese, dalla creazione della nuova Fortezza (Machiavelli: «…quel principe che ha più paura de’ popoli che de’ forestieri debbe fare le fortezze…» ) e dalla soppressione della splendida cittadella della Chiesa aretina posta a Pionta, sorta sulla tomba del Divo Donato.

Epilogo

Dopo cinquanta anni dall'impresa di Colombo, nella Europa caratterizzata dalle grandi monarchie nazionali ancora contraddette da papa ed imperatore, certo era improponibile l'idea di una Arezzo nuovamente autonoma governata da una nobiltà locale. Ma è anche certo che, se il grande cannone d’Arezzo fosse rimasto intero,  Gregorio Sinigardi non avrebbe  avuto motivo di scrivere nel proprio prezioso diario queste terribili parole: «… il di 21 ottobre 1561 si incominciò a buttare a terra et rovinare il duomo (vecchio) con gran disturbo della Città a vedere disfare si bello e Santo Duomo, dove erano molte cose belle, sante et notabili. Così volle chi era padrone. Che Dio gliene perdoni e chi fu inventore di tale cosa …» .

Questo è il senso della storia del cannone da libbre sessanta.

P.BARGELLINI, 'La splendida storia di Firenze', Vallecchi, 1967, vol. II, pagg.248/250.

A.BINI, 'La ribellione di Arezzo nel 1529', A.M.A.P., vol.I (N.S.), 1920, pag 165,168/175.

J.CATALANI, 'Il libro dei Ricordi' (A.1530) (Nella Biblioteca della città di Arezzo). In RR.II.SS. (a cura di A.Bini ), pag. 230.

F .CRISTELLI, 'Storia civile e religiosa di Arezzo in età medicea (1500/1937)', Badiali, 1982, pagg. 13, 14, 19, 43.

A.TAFI, 'Immagine di Arezzo', B.P.E., 1978, pagg. 21, 146.

A.TAFI, 'I Vescovi di Arezzo', Calosci, 1986, pag.130.

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