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a cura di Lions Club Arezzo Chimera
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11 Giugno 1289

a cura di Roberto Cecchi

Dire della Battaglia di Campaldino senza cadere nel banale da una parte e senza discettare di dettagli da studiosi dall’altra, non è facile. Eppure volendo curiosare intorno alla città di Arezzo, non si può sorvolare sull’evento che non solo cambiò in maniera definitiva le sorti ed il futuro della nostra città, ma che segnò nel basso MedioEvo un punto di non ritorno: già sconfitto l'esercito imperiale a Benevento, Arezzo era rimasta la principale roccaforte ghibellina nel Centro-sud Italia: dopo Campaldino i Guelfi risultarono i vincitori indiscussi non solo in Toscana, con sacche di resistenza Ghibellina solo al Nord.

Arezzo rimase decapitata con una strage di tutta la nobiltà e di tutta classe dirigente politica, religiosa, economica e sociale della città; il ‘grosso’, moneta aretina, scomparve e cominciammo ad usare gioco forza il fiorino; l’università aretina sarà poi distrutta: Campaldino segna l’inizio della fine di un’epoca, seppur Arezzo conoscerà ancora qualche decennio di floridezza nel primo ‘300 sotto il Vescovo Guido Tarlati.

Non si trattò di una guerra tra Firenze ed Arezzo, ma tra i guelfi, prevalentemente fiorentini (nelle cui file c’erano anche gli espulsi guelfi aretini), oltreché le forze di Siena, Lucca, Massa, Pistoria, Prato ed ovviamente i francesi, come vedremo; contro i ghibellini aretini (nelle cui file c’erano anche gli esiliati ghibellini fiorentini); e fu per i suggerimenti dei guelfi aretini che i fiorentini decisero di passare dal Casentino anziché dalla più facile vald’Arno.

Nel XIII° Sec., a moderare lo strapotere delle classi nobili, . c’erano i rappresentanti del popolo, i Priori che difendevano gli interessi prevalentemente di mercanti, artigiani ed agricoltori, nei confronti della classe elitaria, fino ad allora sola a decidere le sorti delle proprie popolazioni. E la scusa per intraprendere la guerra venne proprio dalla notizia giunta a Firenze che ad Arezzo i nobili (ghibellini) avessero ucciso il Priore, rappresentante del popolo.

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Firenze ed Arezzo allora si equivalevano; Arezzo aveva una università molto stimata, batteva moneta, possedeva, come vedremo, un esercito tra i migliori di quell’epoca. Si confrontavano peraltro due mondi: quello guelfo, fiorentino e francese, pur'esso carico di nobiltà cavalleresca, pur'esso molto diviso al proprio interno, viveva già, peraltro, anche di una economia aperta allo scambio, ai commerci, alle contaminazioni artistiche; viveva di una classe intermedia che si affacciava alla ribalta molto meno timidamente che ad Arezzo. Il mondo ghibellino si rifaceva ad una nobiltà di nascita e di stile germanica, con un impianto organizzativo del territorio strettamente feudale ed una economia terriera basata sulla agricoltura. C'era una cosa però sulla quale gli aretini erano superiori: l'esperienza e la bravura dei propri cavalieri; che snobbavano i guelfi a tal punto da pensare a loro come 'donnicciole' più attenti a pettinare le 'zazzere' che non a studiare le tattiche di guerra. Anche perchè a guidare l'esercito ghibellino oltre al vescovo Gugliemino c'erano Bonconte da Montefeltro e Guglielmo dei Pazzi, tra i migliori condottieri italiani dell'epoca.

In tutto il Medio Evo - come già nell’epoca tardoimperiale romana - il ruolo della cavalleria era estremamente preminente rispetto a quello della fanteria. Sono ben più mobili; sono molto più pesantemente armati e più pesantemente protetti, dall’armatura (che a piedi non sarebbe portabile), dalla sottostante cotta di maglia, dalla possibilità di usare armi lunghe con l’aiuto di supporti che ne impediscano lo scivolare indietro.

I Cavalieri sono professionisti della guerra, economicamente mantenuti dall’imperatore o dal feudatario, sono l’arma vincente di qualsiasi battaglia, e non possono essere più di tanti, tanto costa armarli, istruirli e mantenerli. La fanteria è formata invece dal popolo, molto meno addestrato, molto più lento, al punto che in battaglia lo si manteneva perlopiù fermo, a far da barriera, dietro scudi molto grandi e pesanti, conficcati nel terreno quasi fossero una palizzata. 

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L’arrivo del monarca francese Carlo II d’Angiò in Italia, che lasciò a Firenze un contingente agli ordini di Amerigo di Narbona, fu l’ultimo tassello che convinse i fiorentini a dar guerra. 

Inutile dire dei 1300 cavalieri e 10000 fanti fiorentini contro gli 800 cavalieri e 8000 fanti nelle fila aretine. Inutile dire della tattica inizialmente difensiva del pur numericamente superiore esercito fiorentino e dell’iniziale favore ghibellino: al grido di 'San Donato cavaliere' gli aretini si lanciarono all'attacco, guidati da 12 paladini presenti anche nelle 'Croniche di messer Giovanni Villani': “richiesono di battaglia i Fiorentini, non temendo perché i Fiorentini fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandoli, dicendo che si lisciavano come donne e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente.   G. Villani (VII 131)

Le linee guelfe furono travolte dai feditori aretini, tanto che Dante stesso, schierato nelle prime linee tra i feditori fiorentini, dirà di quanto timore avesse inizialmente provato. Ma la sorte era avversa e le cose cambiarono

Inutile dire delle gesta di Corso Donati, che disubbidendo ad un ordine superiore attaccò con la sua cavalleria di riserva il fianco degli aretini creando confusione e dividendo la fanteria aretina dalla sua cavalleria che finì quasi completamente accerchiata. Inutile dire del ruolo opposto di Guido Novello, dei Conti Guidi di Poppi - ferventi ghibellini i genitori, già convinto del predominio Guelfo in Italia il figlio - che dopo essere stato tra i fautori della battaglia in campo aperto, a tentar di difendere i propri feudi, comandante di parte aretina della cavalleria di riserva, considerata la battaglia già persa decise di ritirarsi a difesa nel proprio castello senza colpo ferire: di ciò gli sarà reso merito dai fiorentini che risparmieranno Poppi ed il suo castello, mettendo invece a ferro e fuoco Bibbiena ed il castello di Guglielmino degli Ubertini: il Vescovo conte di Arezzo, che già aveva accolto e sepolto un papa ed aveva ospitato il primo conclave di Chiesa cattolica, era sceso in battaglia al comando dell’esercito aretino munito solo di una mazza per non contravvenire al medievale precetto che gli uomini di chiesa non potessero spargere sangue in battaglia.

La battaglia, oramai ampliamente persa dagli aretini, termina per l’inizio di un violento temporale, che pone fine alla caccia all'uomo dei fiorentini che cercavano di fare prigioneri, da portare a Firenze, per chiedere un riscatto.

Era un sabato, quell’11 Giugno 1289, giorno di San Barnaba, in cui già venti anni prima i fiorentini avevano sconfitto i senesi

Dante Alighieri parrebbe quasi farsi gioco degli aretini nella Divina Commedia, quando mescola le carte tra la fama che essi avevano di gran cavalieri e gran giostratori da una parte paragonandola a come si comportarono invece a Campaldino:

«Io vidi già cavalier muover campo,

e cominciar stormo a far lor mostra,

e tal volta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,

o Aretini, e vidi gir gualdane,

fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,

con tamburi e con cenni di castella,

e con cose nostrali e con istrane;»

(Dante Alighieri, La Divina Commedia - InfernoCanto XXII, 1-9)

(vv. anche "Giostra del Saracino")

Se la presenza dei paladini sulla piana di Campaldino è storicamente provata non si può comunque non tenere in considerazione il significato di un numero ricco di simbologie: dietro a quel numero che indica i paladini guidati da Bonconte come non pensare agli apostoli, i discepoli di Gesù, o ad esempio ai paladini di Carlo Magno. Ma anche i cavalieri della tavola rotonda di re Artù secondo alcune tradizioni erano 12, lo stesso numero delle fatiche di Ercole.

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