
a cura di Lions Club Arezzo Chimera

Pietro Aretino, la penna più corrosiva del Cinquecento
a cura di Roberto Cecchi; tratto da Wikipedia e da scritti di Massimiliano Badiali, Marco Botti, Marcello Marzani
Irriverente, geniale, amante degli eccessi, antiaccademico, moderno: tutto questo è Pietro Aretino. Definito “divino” dall’Ariosto o “masnadiero della penna” dal Cantù, Pietro è uno di quei personaggi che non lasciano indifferenti: o si odia o si ama.
Pietro Aretino è stato un poeta, scrittore e drammaturgo italiano. È conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto licenzioso, fra cui i noti Sonetti lussuriosi. Scrisse anche i Dubbi amorosi e opere di contenuto religioso, tese forse a farlo apprezzare nell'ambiente cardinalizio che a lungo frequentò. Fin da subito fu
letterato tanto amato quanto discusso e per molti fu semplicemente un arrivista e uno spregiudicato cortigiano. Ma fu per molti versi un modello dell'intellettuale rinascimentale, autore anche di apprezzati Ragionamenti.
Un genere letterario, il suo, definito "dialogo puttanesco".

Pietro Aretino in un ritratto di Tiziano (1545), Palazzo Pitti
una Biografia fuori dal comune
Della sua infanzia si sa ben poco. E' nato ad Arezzo nella notte tra il 19 e il venerdì 20 aprile del 1492, nei pressi della chiesa di San Pier Piccolo, frutto di una relazione fra un povero calzolaio di nome Luca Del Buta e una cortigiana, Margherita dei Bonci detta Tita, modella "scolpita e dipinta da parecchi artisti". Con il futuro scrittore e le sorelle ancora bambini, il padre abbandona la famiglia per arruolarsi come soldato di ventura e la madre viene accolta dal nobile Luigi Bacci. Ciò provoca nel futuro letterato un rancore talmente radicato nei confronti del padre che, una volta cresciuto, decide di farsi chiamare Aretino, pur di non usare il suo cognome. Al contempo tanto amore nei confronti della madre, che così si definì nelle Lettere: «Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice. »
La vena letteraria si manifesta precocemente: ancora adolescente Pietro scrive un sonetto polemico sulla vendita delle indulgenze da parte di papa Leone X. La cosa non passa inosservata, tanto che il Bacci, per timore della Santa Inquisizione, decide di far riparare il ragazzo quattordicenne a Perugia, dove lavora come rilegatore di libri, sviluppa la passione per la letteratura e la pittura e frequenta la locale Università. Ma non manca anche qui di creare scandali: un giorno “rifinisce” un dipinto, disegnando un liuto in mano alla Maddalena in ginocchio davanti a Gesù, giusto per prendere in giro l’autore dell’opera. Il clero grida subito al sacrilegio e l’impudente è costretto a fuggire a Siena da dove nel 1517, con in mano una lettera di presentazione per il banchiere Agostino Chigi, raggiunge Roma.
Nella città eterna l’Aretino lavora come domestico. Con il tempo entra nella grazie del Chigi, anche grazie all’attrazione che il padrone sente verso di lui, furbescamente ricambiata. Non è un mistero infatti che, almeno nella fase giovanile della sua vita, Pietro preferisse la compagnia degli uomini a quella delle donne, come del resto era abbastanza di moda nel Rinascimento, specie tra i nobili e gli artisti. Si mette al servizio del cardinale Giulio de' Medici e riesce ad approdare anche alla corte di papa Leone X. A Roma ai tempi del conclave (1522) probabilmente scrisse le “Pasquinate”, presto celebri in tutta Italia, poemetti satirici sulla base delle anonime proteste contro la Curia, affissi sul busto in marmo del Pasquino, a piazza Navona. A causa di questi componimenti viene esiliato dal nuovo pontefice, un fiammingo che sarà Adriano VI, da Pietro soprannominato "la tedesca tigna". Soggiorna per brevi periodi ad Arezzo, Firenze e Bologna, e nel febbraio 1523, raggiunge la corte dei Gonzaga a Mantova, dove rimane tra i più alti onori per mesi. Fa ritorno a Roma con l'avvento di papa Clemente VII; comincia a nutrire però una pesante insofferenza nei confronti delle corti e degli ambienti ecclesiastici. Malgrado ciò torna a essere un punto di riferimento della cultura capitolina e stringe forti legami con il poeta aretino Bernardo Accolti e i pittori Giulio Romano e Sebastiano dal Piombo. Quest’ultimo lo ritrarrà in un dipinto tuttora conservato nel nostro Palazzo Comunale. Il Vasari così commenta: "... mi ricordo, io essendo giovinetto, aver veduto in Arezzo nelle case di esso Messer Pietro Aretino, dove era veduto dai forestieri, che per quella città passavano, come cosa rara....".
Un giorno il Romano disegna una serie di sedici immagini pornografiche, incise poi da Marcantonio Raimondi: scoppia lo scandalo e il Raimondi viene incarcerato e solo grazie all’intervento dell’Aretino, rimesso in libertà. Il nostro non si lascia scappare l'occasione e scrive le didascalie di quelle incisioni con testi oltraggiosi e osceni per i tempi, pieni zeppi di riferimenti a vizi carnali di uomini e donne, anche di chiesa, intitolati Sonetti Lussuriosi (non è ancora chiaro se vennero prima le incisioni e poi i sonetti o viceversa. Noi teniamo per buona la prima ipotesi). Nello stesso periodo scrive anche il testo teatrale La cortigiana, commedia ambientata in data antecedente al sacco di Roma e parodia de Il cortegiano di Baldassarre Castiglione. Gli attriti con la corte vaticana, sulla quale l’Aretino ne scrive di cotte e di crude, è ormai insanabile. Si arriva a ingaggiare un sicario per uccidere il corrosivo scrittore: il 28 luglio 1525, mentre l’Aretino passeggia sul Lungotevere, viene raggiunto da cinque coltellate che non lo uccidono per puro miracolo. Presto si diffonde in città la notizia della sua presunta morte: oltre allo sbigottimento da parte di chi lo ammira, si registra la poco velata gioia di chi lo considera una figura scomoda, destabilizzante e di dubbia moralità.
Famosa è la frase del letterato Paolo Giovio, uno dei tanti detrattori di Pietro, che così immagina l’epitaffio da apporre sulla tomba: “Qui giace l’Aretin poeta tosco, di tutti disse mal fuorché di Cristo, scusandosi col dir: non lo conosco”. Lo scrittore, ancora convalescente, risponde da par suo con un ideale epitaffio per il Giovio che recita: “Qui giace il Giovio storicone altissimo, di tutti disse mal fuorché dell’asino, scusandosi col dir: egli è il mio prossimo”.
Pietro è costretto nuovamente a lasciare Roma e rifugiarsi a Mantova presso l’ormai amico fraterno Giovanni de’ Medici, detto dalle Bande Nere, famoso capitano di ventura. Il valoroso condottiero si sta preparando a difendere proprio Roma dall’ira di Carlo V, che vuole punire la Santa Sede per l’alleanza con Francesco I di Francia; ma durante alcuni scontri nel mantovano, il 25 novembre 1526, Giovanni viene colpito e, dopo alcuni giorni di agonia, muore. Sugli ultimi istanti di vita dell’amico, l’Aretino scrive a Francesco degli Albizi quella che probabilmente è la più bella epistola di tutta la letteratura rinascimentale. (cliccare x il documento)
Ben inserito negli ambienti letterari e artistici, l’Aretino guadagnò rapidamente consensi anche fra i politici che si contendevano i suoi uffici di abile mediatore e saggio consigliere. Vedrà crescere in maniera esponenziale le proprie fortune dopo aver ricevuto in dono dall’imperatore Francesco I un pesante catenone d’oro: monile prezioso, ma soprattutto una esplicita ufficializzazione del proprio prestigio. Ma nelle sue tasche il denaro arrivava ed usciva con altrettanta indifferenza.
Nel 1527 si trasferisce a Venezia, dove il “censor del mondo altero e de la verità nunzio e profeta” trova pane per i suoi denti. Accolto con generosità in un palazzo signorile presso Rialto, il letterato toscano, che di soldi ne scialacquava parecchi, in oltre vent’anni non paga neanche una rata della pigione e, sfrattato, deve traslocare in Riva del Carbon, sovvenzionato dal Duca di Firenze. Appassionato al mondo femminile, non temette nei suoi scritti di mettere a nudo anche le sue ambiguità sessuali. Nel 1524, Aretino incluse in una lettera a Giovanni de' Medici un poema satirico in cui scriveva che, a causa di un'improvvisa aberrazione, si era "innamorato di una cuoca ed era passato temporaneamente dai ragazzi alle ragazze...". Nella sua commedia Il Marescalco, il protagonista è felice di scoprire che la donna che è stato costretto a sposare è in realtà un paggio travestito. Mentre si trovava alla corte di Mantova, s'invaghì di un giovane di nome Bianchino e infastidì il duca Federico, chiedendogli di intercedere presso il ragazzo a nome dello scrittore.
Nella città lagunare - a quel tempo, a suo dire, anticortigiana per eccellenza e sede di ogni vizio possibile - accanto a quello di scrittore, l’Aretino sviluppa il mestiere del mercante d’arte, aiutando il giovane Tiziano - con cui stringe un solido rapporto e dal quale sarà ritratto più volte - a piazzare e valorizzare i suoi dipinti presso tutte le corti d’Europa. Altro grande amico gli fu Jacopo Sansovino, un terzetto che ebbe un ruolo determinante nella cultura della Venezia del tempo. Divenne amico del condottiero Cesare Fregoso e nel 1536 fu ospite a Castel Goffredo del marchese Aloisio Gonzaga.
Un’altra trovata che lo rende celebre è quella dei Pronostici: il poeta, alla fine di ogni anno, si diverte a indovinare gli avvenimenti che sarebbero accaduti l’anno seguente, infarcendoli di pettegolezzi sui personaggi citati e divenendo precursore, già nel Cinquecento, della cronaca scandalistica.
Nella Serenissima Pietro si circonda poi di un gruppo di ragazze, una sorta di “groupies ante litteram”, che vivono nella sua grande casa e per questo definite dalla gente “le Aretine”. Una di queste, Caterina Sandella, gli darà due figlie, Adria e Austria. All’inizio del 1538 lo scrittore pubblica una raccolta delle lettere da lui indirizzate a papi, nobili e amici. Questa opera andrà a formare, assieme ad altre sei uscite di cui l’ultima postuma, la prima grande raccolta epistolare della letteratura italiana. In ambito sentimentale gli anni Trenta e Quaranta del XVI secolo sono caratterizzati da momenti di gioia alternati ad altri di sconforto. Pietro si innamora morbosamente di Perina, figlia di Marietta (un’altra delle sue “Aretine”), più giovane di oltre trent’anni. Il suo sentimento non verrà mai ricambiato, visto che la fanciulla considererà sempre il letterato come un padre. Nel 1940 la giovincella, malata di tisi, viene mandata a curarsi a spese di Pietro fuori Venezia, ma nonostante le premure dell’Aretino, nel 1545 muore.
Gli ultimi anni di vita lo scrittore li passa in compagnia degli amici di sempre, preoccupandosi fino alla fine di aiutare le sorelle che vivevano ad Arezzo e assicurare un avvenire sicuro alle figlie Adria ed Austria.
Muore a Venezia mercoledì 21 ottobre 1556, presumibilmente a causa di un colpo apoplettico. Secondo altre fonti, egli perì a causa del troppo ridere: pare che egli avesse l’abitudine, colto dalle risa, di buttarsi all’indietro con la seggiola e che quella fatidica sera lo fece un’ultima volta, ridendo fragorosamente dopo aver ascoltato le gesta delle sue due sorelle meretrici ad Arezzo. Alcune malelingue affermarono che dopo che gli fu impartita l’estrema unzione ebbe la forza di reagire con un moto blasfemo: “Ora che son unto, guardatemi dai topi!”
Il suo corpo fu deposto nella chiesa di San Luca a Venezia, accanto alle spoglie di due amici storici con i quali l’Aretino sognava di perpetuare, anche nell’aldilà, la propria esistenza all’insegna del piacere e della burla. Sulla lapide si dice fosse incisa questa frase “D’infima stirpe a tanta altezza – venne Pietro Aretin biasmando il vizio immondo – Che da color che tributava il mondo – Per temenza di lui tributo ottenne“. Ma il pesante catenone d’oro che ostentava con tanto orgoglio, il giorno delle esequie fu donato ai poveri: forse un clamoroso segno di disprezzo per il potere terreno, sicuramente la prova che nell’animo del “divin Aretino” non albergava soltanto il vizio, ma anche una commovente e umanissima generosità.
Dato il flusso di curiosi che lì venivano per vedere la tomba e data la fama del personaggio, in un periodo non precisato tra il XVIII e il XIX secolo la lapide fu rimossa e le ossa sepolte forse nel piccolo giardino adiacente alla canonica.
Cosa Rappresenta Pietro Aretino?
Due anni dopo la morte di Pietro Aretino, l’Inquisizione mette al bando tutte le sue opere e per secoli una continua campagna diffamatoria lo relega nel girone degli scrittori privi di valore e valori. L’artista, tanto celebrato in vita, riceve le più vergognose critiche anche da personaggi culturalmente influenti, finché alla fine del Settecento c’è chi inizia a riabilitare la sua figura di geniale precursore dei tempi. La piena redenzione si compie nel Novecento e oggi lo scrittore è considerato all’unanimità un personaggio simbolo della letteratura rinascimentale, una figura che nei pregi e nei difetti ha rappresentato nel miglior modo possibile un momento irripetibile della storia.
Se negli anni della maturità l’Aretino cedette alla tentazione di apparire una personalità autorevole piuttosto che uno scapestrato, gli eccessi non mancarono mai e non passarono inosservati: in almeno un paio di circostanze egli dovette difendersi dalle accuse di bestemmia e sodomia e una volta fu vittima di una sonora bastonatura in risposta alla propria graffiante ironia.
Dai suoi adulatori fu chiamato "divino", appellativo che gli piacque e di cui si fregiò, mentre per le sue satire e i suoi motteggi fu chiamato da Ariosto nell'Orlando furioso(46, 14, 3-4): «... ecco il flagello de' principi, il divin Pietro Aretino.»
Pietro ha dimostrato, nelle sue esternazioni letterarie, indubbie qualità di artista geniale e fantasioso, anche se non possiamo negare che i temi da lui trattati ed il linguaggio intemperante e scurrile che spesso adopera non sempre suscitano ammirazione in chi legge.
Ma chi è stato, in effetti, Pietro l'Aretino?
I suoi scritti spesso mettono alla gogna principi e prelati, nobili e uomini d'arme... in una parola i "potenti" dell'epoca. Sia nei scandalosi "Sonetti lussuriosi" come in tutte le sue opere successive (I Ragionamenti - Le carte parlanti - I cinque libri delle Lettere) egli propugna un antipetrarchismo di istintiva ribellione contro le ipocrisie della nobiltà, alla quale peraltro non lesina adulazioni e richieste di favori. L'Aretino è stato capace di mischiare le sue indubbie qualità di artista con le innate doti di magistrale corruttore del proprio secolo. Giovanni Papini lo definirà "il più famoso mandrillo questuante della letteratura universale" e Cesare Cantù "un masnadiero della penna": egli portò in sé tutte le contraddizioni di quel secolo splendido e turpe nello stesso tempo, nel quale il potere nasceva dall'essere più violenti degli altri.
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Pur con tutti i limiti posti alla sua opera dalla costante predilezione per gli aspetti deteriori della realtà, Pietro Aretino ha precorso la stampa giallo-rosa di certo giornalismo odierno, rendendo di pubblico dominio le nefandezze, gli intrighi, le frodi, gli inganni, la sfrenata sessualità, gli adulteri, le lotte di potere che serpeggiavano nei palazzi dei principi e nella stessa corte papale. Ma il suo era un "ben colorito italiano" mescolando nei propri versi - con rara maestria ed innegabile foga letteraria - le gioie e i dolori della vita.
Opere principali
Poemi
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Marfisa (1532)
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Delle lagrime di Angelica (1538)
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Orlandino (1540)
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Astolfeida (1547)
Commedie
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Farza
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La cortigiana
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Il marescalco[12][13]
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La talanta
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Lo ipocrito
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Il filosofo
Tragedie
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Orazia
Altre opere
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Sonetti lussuriosi
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Dubbi amorosi[14]
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Lettere
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Ragionamento della Nanna e della Antonia fatto a Roma sotto una ficaia (1534)
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Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa sua figliola (1536)
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Ragionamento delle corti (1538)
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Le carte parlanti (1543)
Film su Pietro Aretino
Quasi tutti i film italiani su Pietro Aretino sono di genere demenziale, erotico e comico allo stesso tempo, tipico del filone "decamerotico".
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...e si salvò solo l'Aretino Pietro, con una mano davanti e l'altra dietro..., regia di Silvio Amadio (1972)
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Le notti peccaminose di Pietro l'Aretino, regia di Manlio Scarpelli (1972)
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Fiorina la vacca, regia di Vittorio De Sisti (1972)
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Fratello homo sorella bona, regia di Mario Sequi (1972)
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Novelle galeotte d'amore, regia di Antonio Margheriti (1972)
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Decamerone '300, regia di Renato Savino (1972)
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Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno, regia di Bitto Albertini (1972)
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I racconti romani di una ex novizia, regia di Pino Tosini (1972)
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L'Aretino nei suoi ragionamenti sulle cortigiane, le maritate e... i cornuti contenti, regia di Enrico Bomba (1972)
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...e continuavano a mettere lo diavolo ne lo inferno, regia di Bitto Albertini (1973)
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Fra' Tazio da Velletri, regia di Romano Gastaldi (1973)
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I giochi proibiti de l'Aretino Pietro, regia di Piero Regnoli (1973)
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Storie scellerate, regia di Sergio Citti (1973)
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Novelle licenziose di vergini vogliose, regia di Joe D'Amato (1973)
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Il mestiere delle armi, regia di Ermanno Olmi (2001
​Alcuni scritti dell'Aretin Pietro
“La verità figliuola è del gran Tempo. (Veritas filia temporis)”​
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“Il danaio che si spende è sterile, e quel che si giuoca fruttifero.”​
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“Anche quando si inveisce contro di me, guadagno rinomanza.”​
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“Chi non sa che la filosofia è simile a uno che favella sognando?”​
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“Due cose mantengono vive le creature: il letto e il giuoco; peroché l'uno è refrigerio de le fatiche e l'altro ricreazione de i fastidi.”
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“Il pane e noi concorriamo insieme circa la famigliarità con l'universale, e sì come i dottori, i filosofi, i gentiluomini, i cavalieri, i signori, i conti, i marchesi, i duchi, i re, gl'imperadori e i papi, con ogni altra spezie di genìa, mangiano lui, così le medesime varietà di genti maneggiano noi. E ne la foggia che la sustanzia del pane su detto nutrisce le turbe che diciamo, resta in noi la volontà de le persone che ci adoprano; onde siamo or larghe, or misere, or piacevoli, or furibonde, or taciturne, or cicale, or facete, or ritrose, ora sapute e ora triviali.”
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“Tutte l'altre arti s'imparano, ma con quella della pazzia ci si nasce.”
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“Dalla culla e non dalla scuola deriva l'eccellenza di qualunque ingegno.”
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“Non ci sono le più false pazzie, che quelle che talor fanno i savi.”
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“In fine,retorica è ne la lingua di chi ama, di chi inganna e di chi ha bisogno”
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“Lo innamorarsi è la ricetta che usano i vecchi contro il tempo; e ha cotanta virtù il loro far ciò, cha tanto ritornano giovani quanto ciò fanno.”
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“Il soverchio de lo studio procura errore, confusione, malinconia, collera e sazietà.”
“Le ricchezze senza generosità sono povertà dè plebei.”
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“Non si insegna mai troppo quello che mai si impara a bastanza.”
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“Io sono, davvero, un re, perché io so come comandare a me stesso.”
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“Poco dura la doglia che finisce in le lagrime, e assai lungo è il termine del patire che si rimane nel cuore.”

Pietro Aretino

Statua a Pasquino
(p.za Navona)

Palazzo Bolani Erizzo
(abitazione dell'Aretino a Venezia)

Locandina di uno dei tanti film sulle storie di Pietro Aretino